Economia nordica: dalla più arretrata alla più ricca d’Europa

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ECONOMIA NORDICA: COME I PAESI NORDICI SONO DIVENTATI COSÌ RICCHI

I Paesi Nordici sono oggi tra i più ricchi del mondo in termini di PIL pro capite, con la Norvegia ad essere la più ricca della regione – staccando ampiamente tutti gli altri Nordics – e la quinta al mondo. Al 2023, il PIL Pro capite medio norvegese è di 87.861,78 dollari statunitensi, un dato spaventoso già solo se confrontato con quello dell’Islanda (78.811 $), della Danimarca (67.967 $) o della Svezia (56.305 $); e ancor più impietoso se confrontato con quello italiano, francese o tedesco (rispettivamente 38.873, 44.460 e 52.745 $).
Eppure, tra i 100 e i 150 anni fa i norvegesi erano tra i più poveri d’Europa. A metà del XIX secolo, le economie nordiche erano arretrate rispetto alle principali nazioni industrializzate. Lo sviluppo economico di questi Paesi è stato quindi molto rapido, in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Allo stesso tempo, non rientrano nel “modello da manuale” di efficienza economica: le economie nordiche, come noto, sono caratterizzate da settori pubblici estesi, sistemi di welfare generosi, livelli di tassazione elevati e un significativo coinvolgimento statale. Per questo motivo, il “modello nordico” ha attirato notevole attenzione a livello internazionale.

Economia nordica:

I cinque Paesi nordici hanno molte caratteristiche in comune: sono tutte cosiddette economie aperte e di piccole dimensioni, fortemente dipendenti dal commercio estero o dal turismo (Norvegia e Islanda). Questi Paesi hanno saputo sfruttare i vantaggi della globalizzazione, ma proprio per la loro apertura economica sono stati sensibili alle fluttuazioni internazionali. Fino agli anni ‘80, la Finlandia era particolarmente vulnerabile a causa della sua forte dipendenza dall’industria forestale come unico settore di esportazione; e dall’URSS, che infatti dopo il crollo ha provocato la peggiore crisi economica della Finlandia durante gli anni Novanta: il romanzo Aadam ed Eeva di Arto Paasilinna la racconta molto bene.

Svezia e Danimarca, invece, avevano basi economiche più ampie, risultando meno esposte agli shock esterni. In Norvegia, la ricchezza di petrolio e gas ha contribuito a ridurre le fluttuazioni economiche dal 1970 in poi. L’Islanda, al contrario, non ha vissuto crisi significative fino al 2007-2008, godendo di una piena occupazione per tutto il periodo postbellico. Tuttavia, la crisi economica del 2008 è stata particolarmente grave per l’isola artica.

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DALLA PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

La prima industrializzazione dei Paesi Nordici si è basata su alcune risorse naturali fondamentali. Finlandia, Norvegia e Svezia possiedono ampie riserve forestali, rendendo legname, cellulosa e carta prodotti di esportazione importanti. La Svezia dispone anche di ricche riserve di minerale di ferro, soprattutto nel Nord del Paese, che hanno portato ricchezza al Paese già prima dell’industrializzazione moderna. In Norvegia, i settori principali sono stati la silvicoltura, la pesca e l’idroelettrico, mentre dagli anni ‘70 la scoperta dei giacimenti di petrolio e gas nel Mare del Nord hanno enormemente arricchito il Paese e cambiato profondamente la sua società e la sua economia.
In Islanda, la pesca è stata per lungo tempo l’industria dominante, rappresentando circa il 40% delle esportazioni e contribuendo a oltre il 10% del PIL all’inizio del XXI secolo. Altre risorse importanti in Islanda includono alluminio, energia idroelettrica e geotermica. La Danimarca, invece, ha una dotazione di risorse diversa: i suoi terreni agricoli fertili hanno reso l’agricoltura un settore chiave per l’intera economia danese, con un ruolo rilevante per l’industria alimentare.

Negli anni, i Paesi Nordici hanno subito importanti trasformazioni strutturali. Sebbene ancora oggi dipendano dalle esportazioni industriali, il settore dei servizi è cresciuto rapidamente, diventando il più rilevante. Durante il periodo postbellico, nuovi settori industriali si sono sviluppati, ampliando la base produttiva. In Svezia, tra i principali prodotti di esportazione ci sono ferro e acciaio, prodotti in cellulosa e carta, apparecchiature di precisione, alimenti trasformati e veicoli a motore. In Norvegia, oltre al petrolio e al gas, i settori principali includono macchinari, veicoli, prodotti chimici e lavorazioni del legno. In Finlandia, oggi i settori più rilevanti sono le telecomunicazioni e l’elettronica, ma legno, carta, metalli di base e ingegneria restano importanti. La Danimarca, infine, è un esportatore netto di prodotti alimentari ed energia, ma anche l’industria farmaceutica, con Novo Nordisk a fare da leader, riveste un ruolo significativo.

LE ECONOMIE MODERNE E GLI ANNI SETTANTA

I percorsi di sviluppo dei Paesi Nordici hanno mostrato alcune divergenze nel tempo. Nel XIX secolo, la Danimarca e la Svezia, pur più povere rispetto al Regno Unito o all’Europa continentale, avevano un livello di vita considerevolmente più alto rispetto a Finlandia, Islanda e Norvegia – che del resto erano o erano state loro colonie, quindi penalizzate. L’industrializzazione della Danimarca e della Svezia iniziò all’inizio del XIX secolo, accelerando rapidamente verso la fine del secolo, mentre l’industrializzazione degli altri tre Paesi iniziò solo nella seconda metà del XIX secolo. Già alla fine del XIX secolo, alcune aziende svedesi, come SKF (Svenska Kullagerfabriken), Volvo, Saab, Ericsson, Asea (oggi ABB) e Alfa Laval, erano leader mondiali nei rispettivi settori. Anche la Danimarca aveva importanti aziende competitive a livello internazionale all’inizio del XX secolo. In Finlandia, l’industria della cellulosa e della carta rimase il principale settore di esportazione fino agli anni ‘90, quando le esportazioni di ICT (tecnologie dell’informazione e comunicazione) crebbero rapidamente.

Dopo lo shock petrolifero dell’autunno 1973 e il collasso del sistema di Bretton Woods, la maggior parte delle economie sviluppate entrò in recessione, vivendo una lunga fase di crescita lenta. Tra i Paesi Nordici, Svezia e Danimarca furono particolarmente colpite dalla stagnazione.
La Danimarca in particolare soffriva già dagli anni ‘60 di persistenti deficit della bilancia dei pagamenti e alta inflazione. Il settore pubblico era cresciuto in modo incontrollato e i disavanzi di bilancio rappresentavano un problema. L’adesione della Danimarca alla CEE e futura Unione Europea nel 1973 migliorò le esportazioni e i flussi di investimenti diretti esteri, ma, nel breve termine, la deregolamentazione aggravò alcuni squilibri. A metà degli anni ‘80, il Paese adottò un programma economico strutturale rigoroso, noto come la “cura della patata”, che includeva aumenti fiscali e politiche per frenare consumi e investimenti privati. Alla fine degli anni ‘80, l’economia danese si era ripresa.

La Finlandia sperimentò una grave recessione negli anni ‘70. Tuttavia, il commercio estensivo con l’Unione Sovietica la rese meno vulnerabile ai problemi comuni nei Paesi occidentali, come il peggioramento della bilancia commerciale. Il commercio bilaterale con l’URSS garantì un equilibrio tra importazioni (principalmente petrolio) ed esportazioni. Negli anni ‘80, prima del crollo del commercio sovietico, la Finlandia registrò un surplus commerciale crescente, salvo poi crollare nuovamente con la fine dell’URSS stessa.
La Norvegia subì la crisi in alcuni settori, ma l’industria petrolifera, sviluppatasi rapidamente dopo la scoperta del petrolio nel Mare del Nord nel 1969, contribuì a mitigare gli effetti della recessione.

Infine, la Svezia affrontò gravi problemi strutturali, con i settori navali e minerari particolarmente colpiti. La produttività crebbe lentamente, mentre il settore pubblico si espanse rapidamente. Per far fronte alla crisi, la Svezia ricorse a due svalutazioni negli anni ‘70, che favorirono le esportazioni, ma il recupero complessivo fu lento, e pose i primi dubbi sul modello economico del Paese.

IL CROLLO DEGLI ANNI NOVANTA

A metà degli anni ‘80, quindi, le economie nordiche si erano generalmente riprese, vivendo un periodo di crescita. In questa fase, fu adottato un approccio più orientato al mercato, con liberalizzazioni e deregolamentazioni che stimolarono ulteriormente lo sviluppo. Tuttavia, la rapida deregolamentazione dei mercati finanziari portò a un’espansione del credito e al surriscaldamento dei mercati immobiliari, creando bolle speculative. Quando la recessione globale colpì nei primi anni ‘90, le economie nordiche, particolarmente vulnerabili in quanto aperte, ne furono gravemente colpite. La situazione fu aggravata in Finlandia dal crollo dell’Unione Sovietica, che fece scomparire improvvisamente un importante partner commerciale. In Finlandia e Svezia, gli alti tassi d’interesse e la necessità di svalutazioni portarono a un forte calo delle esportazioni, al crollo del mercato immobiliare, a un’ondata di fallimenti e a crisi bancarie profonde. Gli altri Paesi Nordici affrontarono rallentamenti economici meno gravi, ma la Norvegia fu colpita da una crisi bancaria.

La ripresa iniziò rapidamente dalla metà degli anni ‘90. Svezia e Finlandia, grazie alla svalutazione delle loro valute, registrarono una rapida ripresa delle esportazioni. Entrambe entrarono nell’Unione Europea nel 1995, migliorando ulteriormente i flussi commerciali. Nuovi settori, come le telecomunicazioni e l’ICT, si svilupparono rapidamente, con aziende come Ericsson (Svezia) e Nokia (Finlandia) che divennero simboli di successo. Altri colossi globali come IKEA e H&M si affermarono ulteriormente sui mercati internazionali.

I PAESI NORDICI E LA CRISI FINANZIARIA DEL 2007-2008

Quando la crisi finanziaria globale colpì nel 2007-2008, i Paesi Nordici, ad eccezione dell’Islanda, furono meno colpiti rispetto ad altre nazioni.

Finlandia: l’economia finlandese subì un forte contraccolpo nel 2008, con una diminuzione del PIL superiore al 7%. La ripresa fu lenta, seguita da un decennio di crescita debole. Tuttavia, tra il 2017 e il 2018, l’economia tornò a crescere vigorosamente.

Danimarca: il PIL danese si ridusse dello 0,9% nel 2008 e del 4,7% nel 2009. Tuttavia, nel 2010, l’economia danese si riprese, sviluppandosi in modo favorevole negli anni successivi.

Svezia e Norvegia: entrambe le economie si contrassero nel 2009 ma registrarono un forte rimbalzo già nel 2010. La debolezza delle rispettive valute favorì le esportazioni, e questi Paesi non furono gravati dalla crisi dell’eurozona. La Norvegia, in particolare, continuò a godere di uno dei livelli di produttività più alti in Europa, mentre la Svezia vantava un’elevata partecipazione al mercato del lavoro.

Islanda: l’Islanda fu colpita in modo estremamente severo dalla crisi. Nei primi anni del XXI secolo, il settore bancario islandese era stato privatizzato e liberalizzato, espandendosi rapidamente sui mercati esteri. Al culmine della bolla, i prestiti e gli attivi delle banche islandesi superavano di dieci volte il PIL del Paese. Con la crisi globale, le tre maggiori banche islandesi collassarono nel 2008. Questo portò a una forte recessione, con un calo del PIL del 6,8% nel 2009 e del 4% nel 2010. La corona islandese subì una svalutazione drastica. Dopo il 2011, però, l’Islanda avviò una rapida ripresa, con un ruolo crescente del turismo come nuova fonte di crescita economica. Scelta però a luci e ombre, che ha reso il Paese una sorta di parco giochi per turisti e che ha mostrato tutte le sue debolezze durante l’epidemia di Covid-19, quando non si poteva viaggiare.

Articolo in collaborazione con

Robin Mørensson,
founder @ NØGLEN

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